Credo che abbiano ragione tutti e due: sia l’Unione Europea, sia chi non vuole che le concessioni balneari finiscano in mano alle multinazionali.

Esaminiamo i fatti con sobrietà e senza fideismi.
L’Unione Europea ha ragione quando dice che le norme europee devono essere applicate, e ci mancherebbe altro: il diritto di ripensamento non può essere consentito ai governi secondo le lobby che li sostengono pro tempore, gli Stati vengono prima delle temporanee maggioranze che li guidano e se un obbligo è assunto quell’obbligo va rispettato, pacta sunt servanda.

L’Europa ha ragione, inoltre, quando che la gestione dell’affare balneari come fin qui condotta rappresenta una chiara manovra contro la libera concorrenza, uno dei pilastri della costruzione europea.

A dirla tutta, mi pare assolutamente evidente che in questa storia un’intera nazione è tenuta in ostaggio da poche migliaia di concessionari di un bene pubblico (che pagano una miseria tale concessione e probabilmente evadono il 95% dei loro introiti) i quali pretendono che lo Stato rinnovi tali concessioni in eterno senza chiedere né di guadagnarci in maniera adeguata e neppure di vedere migliorati i servizi offerti ai turisti.

Era dai tempi dei privilegi della nobiltà che non si vedeva la pretesa di qualcuno di sfruttare beni dello Stato senza doverne rispondere; almeno ai tempi c’era un sovrano che in qualche modo poteva giocare qualche carta, oggi il sovrano – al secolo, i cittadini della Repubblica – dovrebbe secondo alcuni stare zitto e guardare eternarsi il privilegio.

È solo poi incidentale che almeno una parte di chi difende i poveri balneari corrisponda anche a chi recita il mantra del “turismo petrolio d’Italia “il turismo è considerato così tanto un petrolio, da affidarne lo sfruttamento senza controlli a qualcuno che non si sa bene cosa ne farà, e che applicherà prezzi indegni rendendo sempre meno conveniente e attraente venire al mare in Italia anziché nel resto del Mediterraneo o addirittura più lontano.

 

Sono, come dicevo, “d’accordo” (insomma…) anche con i balneari.

Dietro a queste concessioni, gestite con modalità da rapina ed evadendo alla grande il fisco, ci sono solitamente famiglie, normali famiglie, non “famiglie” mafiose; queste famiglie traggono da quelle concessioni il reddito per la propria sussistenza.

Con assoluta certezza, se le concessioni balneari fossero messe all’asta e concentrate nei conglomerati della grande distribuzione turistica (catene di alberghi, tour operator, investitori specializzati) non solo queste famiglie perderebbero i loro redditi, ma le multinazionali impossessatesi delle concessioni riuscirebbero a spostare gli utili al di fuori dal nostro Paese, non migliorerebbero il Servizi né abbasserebbero i prezzi, sostituirebbero i nostri concittadini con dei poveri cristi disposti a essere pagati salari da fame come già accade in buona parte della grande distribuzione: il trasferimento delle concessioni balneari effettuato in queste condizioni corrisponderebbe a una gigantesca distruzione di ricchezza senza alcun beneficio né per le casse dello Stato né per i turisti.

 

Amaramente, tra una famigliola romagnola che paga la sua concessione tre lenticchie ed evade la quasi totalità del proprio reddito annuale, e una multinazionale che non evade almeno l’IVA, ma che riesce invece ad abbattere i propri utili con le solite triangolazioni transfrontaliere, a me non pare ci sia tutta questa grande differenza: in entrambi i casi a prenderla in saccoccia sono le casse dello Stato.
Detto questo, sono convinto che sia possibile rispettare gli obblighi internazionali che l’Italia ha liberamente assunto, difendere la concorrenza e impedire che la messa all’asta delle concessioni si trasformi nell’ennesima predazione della ricchezza nazionale.

Le concessioni vanno messe all’asta perché il principio della messa all’asta dei beni pubblici affidati ai privati è, prima ancora che un obbligo verso l’Unione Europea, connaturato al nostro sistema di diritto pubblico:

  • Il principio dell’asta è costituzionalmente previsto per i dipendenti pubblici: si entra nel pubblico impiego con un concorso, che è in buona sostanza un’asta in cui si sceglie chi offre di più dal punto di vista dei titoli e della preparazione.
  • Le risorse limitate della pubblica amministrazione sono ottenute attraverso delle aste, come quelle per aprire un negozio nei palazzi storici dei viali pregiati dei nostri comuni.
    Il principio dell’asta vale anche nelle forniture allo Stato: vince l’asta chi, a parità di requisiti è più conveniente.
  • Le risorse naturali scarse sono oggetto di asta: basta pensare alle aste lo Stato organizza per concedere l’utilizzo delle frequenze radioelettriche per i servizi di telecomunicazione, e così via.

Allora, posto che dalle aste non si può scappare come evitare di essere predati dalle multinazionali?
La strada è semplice, ed è quella di difendere l’interesse pubblico al miglior risultato nella gestione di un bene limitato.

  • Prevediamo le aste, ma prevediamo anche che nessuno possa direttamente o indirettamente possedere più di un numero limitato di concessioni.
  • Procediamo alle aste ma vietiamo in via generale a chiunque abbia direttamente o indirettamente un albergo o un’altra struttura ricettiva o della ristorazione entro un determinato raggio di partecipare all’asta.
  • Diamo i beni in concessione per un periodo limitato, con asta automatica al termine del periodo, impedendo che le concessioni balneari siano usate per qualcosa d’altro che non affittare i lettini: non devono essere lo strumento per accordi di cartello tra imprenditori che controllano il mercato, non devono diventare pertinenze di altre attività, sfruttate per favorire quelle attività.
  • Se, infine, riuscissimo anche a fare in modo che con le nuove concessioni balneari si riuscisse anche a fissare principi quali il fatto che è obbligatorio il registratore di cassa è il fatto che il concessionario ha il diritto di affittare i propri beni, non quello di impedire la fruizione della spiaggia (principi già previsti ma non fatti rispettare), sarebbe un bel passo avanti verso una società moderna che riconosce diritti, ma non privilegi.

Se il signor Gustafsson dalle coste svedesi dell’oceano Atlantico o il signor Melis dalla rumorosa Milano vogliono trasferirsi a Rimini per gestire un “bagno”, nulla deve impedire a loro di provare a competere con il signor Casadei che già aveva una concessione: sono tutti e tre cittadini dell’Unione Europea e hanno tutti e tre diritto di spostarsi a lavorare in qualunque paese dell’Unione.
Se, invece, l’amministratore delegato della solita multinazionale francese dell’hotellerie, o della ristorazione o della GDO volesse fare strage di piccole imprese imponendo una catena di esercizi tutti controllati dalla sua multinazionale, allora abbiamo il diritto di dire che, a nostro avviso, è più funzionale allo sviluppo economico e alla tutela della concorrenza impedire che una risorsa pubblica cada nelle mani di pochi operatori.

Se volgiamo lo sguardo al resto del Mediterraneo, ci possiamo anche accorgere del fatto che non è mica detto che la concessione delle spiagge a operatori economici sia necessaria per promuovere sostenere un’offerta turistica di successo, anzi: è palese che sempre più turisti scappano dall’Italia per andare in paesi dove non sono taglieggiati per noleggiare un lettino o bere una lattina.

Insomma: esiste un modo sano di proteggere gli interessi nazionali e, allo stesso tempo, rispettare gli obblighi assunti in sede europea.