In queste settimane, soprattutto su LinkedIn, ho incontrato diverse discussioni su alcune campagne di responsabilità sociale.
C’è il fabbricante di abbigliamento che ci spiega quanto sia etico e il resto sia mxrda (proprio così: “Patagonia wants you to stop buying crap”), la fabbrica olandese di birra “sarda” che ci dice che se buttiamo male le sue bottiglie preferisce non vendercele, la compagnia telefonica che difende le donne, il produttore di automobili che gira i suoi spot nel verde incontaminato ma ci ordina di guidare rispettando l’ambiente (scegliete voi il brand, lo fanno tutti)… manca solo il/la “content creator” su only fans che ci invita a rispettare il sesto comandamento.
Da signore che da troppi anni si rotola nel peccato del mondo della comunicazione trovo molto spesso queste campagne respingenti, perché mi sembrano il più delle volte distanti dall’esperienza di comunicazione dei marchi a cui sono collegate, e perché so quanto cinismo e – peggio – mancanza di consapevolezza da parte del committente ci sia in molte occasioni.
Per tutte queste ragioni, quando si parla di progetti di responsabilità sociale mi sento molto dubbioso.
Invece, quando Bruce Richman ha condiviso l’immagine che vedete, questa ha subito attirato la mia attenzione.
Trovo l’immagine particolarmente efficace perché supera i limiti delle tradizionali campagne CSR: troppo mielose, troppo impegnate, troppo colpevolizzanti eccetera.
A differenza di tutti questi troppo, qui vediamo soltanto una normale persona di mezza età che dice “U=U is a game changer”, U=U è un punto di svolta… e il marchio dello sponsor.
(non sai cosa vuol dire U=U? leggi dopo gli asterischi)
Ci vogliamo vedere una campagna CSR? va bene, del resto Gilead è impegnata in tutto il mondo a fianco della comunità delle persone con HIV; io però ci vedo prima di tutto un potente messaggio commerciale: siamo noi, siamo un player globale nel mercato dell’HIV e lo siamo così tanto che non dobbiamo neppure dirlo, siamo quelli che cambiano la vita delle persone con HIV (e non solo).
La buona comunicazione ha la stessa regola in ogni settore, e in ogni luogo: “la verità, raccontata bene” come recita il pay-off di un colosso “concorrente”.
Tutto il resto (in questo caso il miele, l’impegno e i sensi di colpa) è solitamente frutto della scarsa capacità o dei disturbi dei creativi o dei committenti.
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COSA VUOL DIRE “U=U”?
Poiché si tratta di un ambito nel quale ho una certa expertise ma molti dei miei lettori no, farò un NON brevissimo riassunto.
Tutti ricordiamo la pubblicità dell’alone viola, un incubo che ha segnato il racconto dell’HIV in Italia. Uno spot che diceva in buona sostanza che tutti possono rimanere contagiati, e che nulla può permetterti di escludere questa circostanza (nota statistica: la quasi totalità dei nuovi contagi avviene per via sessuale e il 50% è tra eterosessuali).
Dalla metà degli anni ‘90 del secolo scorso, però, l’incredibile avanzamento scientifico portato dalla ricerca sull’HIV ha generato classi di farmaci mai visti prima capaci di cambiare non solo la storia naturale di quell’infezione ma la storia delle nostre società.
Nei primi anni ‘90, si è ipotizzato che una terapia combinata fra farmaci antivirali con meccanismi diversi d’azione fosse in grado di fermare stabilmente la replicazione di HIV, senza dar luogo a resistenze ai singoli farmaci: intorno al 1995 la “HAART” (Highly Active Antiretroviral Therapy) diventa la strategia per affrontare l’HIV, con un successo immediato.
In breve, ci si è accorti che questi farmaci non solo fermavano la replicazione virale, erano addirittura in grado di “prendere per i piedi” pazienti oramai in AIDS e restituirli alla vita di ogni giorno.
Ancora qualche anno e gli studi hanno iniziato a indicare che la sopravvivenza attesa per le persone con HIV in terapia efficace poteva essere simile a quella dei “sani” (sani che dopo i 60 anni praticamente non esistono).
Infine, il botto: la terapia efficace, quella che rende il virus non rilevabile ai test, garantisce l’impossibilità di contagiare altre persone, le persone che vivono con HIV possono avere così una normale vita affettiva e sessuale e generare figli senza rischi.
Nasce così, nel 2016, dopo che la ricerca medica ha scritto una storia di successo incredibile, l’organizzazione newyorchese Prevention Access Campaign, che lancia la campagna “undetectable=untrasmittable”, il fondatore ed Executive Director di PAC, Bruce Richman diventa l’uomo immagine di questa campagna che diffonde nel mondo il messaggio che la terapia antiretrovirale efficace, quella che rende HIV non rilevabile ai test, garantisce l’impossibilità di contagiare altre persone: le persone che vivono con HIV possono avere così una normale vita affettiva e sessuale, fino addirittura a generare figli senza rischi di trasmissione verticale, e fino alla possibilità di allattare.
Dopo decenni di stigma, i farmaci hanno cambiato radicalmente la storia dell’HIV e l’organizzazione guidata dal caro Bruce ha compiuto autentici miracoli nel cambiare il suo racconto: oggi “undetectable=untrasmittable” è affermato dall’OMS, dalle autorità sanitarie in tutto il mondo, in giurisprudenza… se non è una storia di successo questa, se non è una storia che racconta come la comunicazione è importante nelle nostre società, non so cos’altro possa esserlo.