Premessa per chi non mi conoscesse bene: non sono un nostalgico del Mulino Bianco, né degli anni della mia gioventù, so bene che ogni medaglia ha il suo retro, ogni pranzo ha il suo prezzo, ogni bel ricordo cela molte menzogne; quindi, questa non è una riflessione passatista…
Nel mio percorso verso l’ufficio, passo spesso per Corso Vittorio Emanuele, trasformatosi dalla caotica via della mia infanzia in un “mall” all’aria aperta.
L’anno scorso incrociavo spesso un simpatico ragazzo che intratteneva i potenziali avventori di un negozio di giocattoli con improvvisati balletti sulle note della musica riprodotta nel negozio. Quel ragazzo non lo vedo più: deve avere trovato qualcosa di meglio, lo spero per lui perché mi stava istintivamente molto simpatico anche per il suo sorriso veramente dolce.
Oggi, ho incrociato una signorina che con molta convinzione decantava le virtù di non so quale impiastro cosmetico a delle potenziali clienti, fuori dal negozio di una catena di profumerie. La scena mi ha ricordato quella dei promotori e delle promotrici che ogni volta mi adescavano nel mall del “Water Tower Place”, un grattacielo di Chicago (sono sicuro che il carissimo Michele sa di cosa sto parlando).
Come mi dicevo mi è venuta in mente quella scena e mi sono venute in mente alcune considerazioni che – negli anni in cui frequentavo i congressi negli Stati Uniti – mi è capitato di fare spesso con i miei colleghi, in particolare con uno dei miei soci, osservando la “brillantezza” del personale dei negozi locali…
E le considerazioni sono queste: la cultura della grande distribuzione organizzata e delle “big qualunque cosa” è uno dei mali del mondo.
Ho avuto la fortuna (se così si può dire) di vedere questa cosa in anteprima di qualche anno negli Stati Uniti (ma non è che pure da noi fossimo già allora così tanto in ritardo): sto parlando di una società nella quale siamo tutti commessi, tutti soldati semplici, al massimo caporali, in qualche organizzazione.
Il diffondersi senza limiti né rallentamenti della grande distribuzione e delle multinazionali in ogni ambito, ha creato una unica cultura del lavoro e quindi dell’organizzazione sociale.
È la cultura delle direttive che arrivano dall’ufficio marketing dall’altro lato del pianeta, di un’organizzazione che non ti chiede soltanto un impegno lavorativo, ma anche coinvolgimento, appartenenza, direi quasi in militanza. È la cultura dei compartimenti stagni, della gerarchia molto più che in una fabbrica degli anni 50, dell’assenza di dubbi.
Quella di tutti quei lavori di tutti quegli uffici inutili il cui scopo è controllare, irreggimentare, certificare e omologare l’attività in un’azienda.
Quella delle società dove puoi essere cacciato da un momento all’altro, ma è obbligatorio che tu sia buono e impegnato socialmente, e che tu partecipi programmi di volontariato promossi “da corporate” perché sennò lo sanno tutti in azienda e la tua carriera va a puttane.
Che il posto di lavoro sia in una multinazionale dei panini con la polpetta, in una catena di profumi ecosostenibili, in un colosso globale delle scienze della vita (ossia in un’azienda farmaceutica) o una caserma, la vecchia triade del ventennio è tutta l’architettura del pensiero che serve: credere, eseguire, in questo caso vendere.
La perpetuazione di questo tipo di cultura è facilitata anche da una tendenza delle grandi organizzazioni a “puntare sui giovani”.
A dispetto di quello che può sembrare la frase, si tratta di una logica perversa, di organizzazioni in cui arrivi al vertice a quarant’anni e ne sei espulso poco dopo, non appena qualcun altro spinge da sotto (e a quel punto ti devi reinventare completamente, perché le posizioni di vertice non sono mica tante).
Organizzazioni così “giovani” sono il luogo migliore dove far crescere il talebanismo aziendale: non c’è nessuno che possa raccontare qual era la cultura aziendale in passato, che abbia un’esperienza, una seniority si dice tra quelli che conoscono la lingua del business, per spiegare che la brillante strategia nella quale ci hanno chiesto di credere è la riedizione di qualcosa già fatto, o anche solo per capire a cosa serve quello che stiamo facendo.
Che si tratti della ragazza che vende i cosmetici o del project manager della multinazionale, la loro giovanissima età e inesistente conoscenza della storia dell’azienda fanno sì che tu li senta parlare recitando le brand guide del prodotto, o il “disco vendita” per i commerciali, le parole d’ordine dettate dal general manager durante l’ultima call su Zoom, con acritica adesione e poco più.
La cosa “migliore” è che le prime a rimetterci sono spesso le aziende perché, se puoi disinteressarti del livello culturale di chi batte uno scontrino alla cassa del negozio di panini con la polpetta, non puoi non chiederti quale dramma sia un product manager che non conosce la storia del proprio prodotto, che non conosce l’ambiente nel quale l’azienda si muove e cose del genere, una consapevolezza tragica che da oramai direi metà della mia esperienza lavorativa ho purtroppo maturato.
Ma c’è qualcosa di peggio: questo modo di organizzare le aziende ha delle profonde influenze sul nostro modo di organizzare la società. Un commercio fondato sostanzialmente sulle catene è un commercio di commesse e di commessi, a qualunque livello, in cui l’idea di essere imprenditori, avere una progettualità originaria, costruire qualcosa di diverso che non c’era prima e che porta innovazione nel business, scompare, e scompare anche la capacità dei singoli di pensare fuori dagli schemi, di pensare.
Potrei dire che poco mi importa di questa di questo orizzonte quando penso agli americani, che si addestrano a credere e obbedire fin dalle scuole primarie e vivono da sempre in una società diversa dalla nostra, se non fosse che il panorama si sta globalizzando: il formicaio di finte farmacie Walgreens del cuore di Chicago fa il paio con il formicaio di minimarket di Carrefour, Esselunga eccetera nel cuore di Milano.
La scomparsa della piccola e media impresa, del droghiere sostituito dalla catena tedesca, dei librai sostituiti dall’e-commerce, dei negozianti indipendenti di abbigliamento, che portavano il loro gusto e la loro conoscenza dei consumatori nelle strategie del negozio, beh questa scomparsa è un dramma per noi italiani, per la nostra tradizione di ingegnosità, per la nostra capacità di creare così tante diverse versioni del bello e della società che è la firma della nostra storia.
In una società di commessi, soldati semplici e caporali non c’è spazio per il genio intellettuale, per l’anarchia che crea il bello, per i diversi che costruiscono strade in luoghi non frequentati prima, per l’impresa non come costruzione giuridica o finanziaria ma come sfida personale, luogo in cui si manifesti l’individualità, non è previsto che i vetrinisti sognino di diventare Giorgio Armani.
Morirò prima di vedere mio nipote recitare il credo aziendale nelle riunioni della prima multinazionale che lo assumerà? Non lo so, ma temo che quel giorno lui lo farà con molta convinzione.
credits: l’immagine di copertina è di Werner Heiber da Pixabay. Anche questa immagine suggerisce delle riflessioni: avete mai notato il manierismo delle immagini dei database quando si parla della vita in azienda?