Ho visto Philadelphia al cinema nel ‘94 e quando ne sono uscito ho capito che non avrei guardato mai più altro film sull’AIDS (ho visto poi degli spezzoni di altri film importanti per ricostruire questa storia, ma non ho mai avuto la forza di vederli per intero), esattamente per gli stessi motivi per cui non guardo i film sulla Shoah.
È stata una pietra miliare, un film fondamentale per far capire che dietro ai malati di AIDS c’erano delle persone, famiglie, sentimenti, progetti di vita spazzati via; questo film – come la foto usata da Benetton ed erroneamente attribuita a Oliviero Toscani – ha portato l’umanità in un racconto che per i primi quindici anni era stato molto diverso.
Per me, e per molta parte della comunità gay, è stato un trauma: la storia di una malattia senza speranza, in cui i malati e le persone che li amano sono circondati quando va bene dall’indifferenza ma più spesso dall’odio attivo, da una ignorante malvagia volontà di allontanare, cancellare, punire il malato.
È uno spavento che ti percorre tutte le fibre, i primi anni ‘90 del secolo scorso sono stati gli anni in cui la strage aveva raggiunto i suoi massimi e non è per caso che la comunicazione pubblica di quegli anni fosse terrorizzante. Anche se gli spot del bravissimo ministro De Lorenzo erano molto laici e mostravano che tutti erano rischio, questa cosa si è schiantata sulla comunità gay e lì è rimasta. Ancora nel 2021, ricorderai, l’alone viola è stato usato come stigma in una campagna contro la proposta di legge Zan, senza particolari conseguenze per chi ha fatto una simile porcheria.
Molti anni dopo ho incontrato tanti, tanti componenti di questa comunità nei quali l’incubo dei primi anni ‘90 aveva tracciato come dei tratti istintivi: anche chi non aveva vissuto i primi 15 anni di questa orribile storia era rimasto comunque segnato e ognuno si rivedeva in Tom Hanks che si spegne in ospedale. È qualcosa impossibile da spiegare, o da far sentire: una maledizione dell’anima.
Oggi ci sono i farmaci, la profilassi pre-esposizione (PrEP) e la terapia come prevenzione (TAsP), è tutto così cambiato da sembrare irreale ma quella maledizione dell’anima è ancora lì: le giovani generazioni etero e gay semplicemente non ne parlano, l’HIV (con le MTS in generale) è ancora il convitato di pietra di chi si affaccia alla vita adulta.
Quando qualcuno muore di cancro si dice “si è spento dopo lunga malattia” “oppure “colpito da malattia incurabile” mentre la famiglia il nome della malattia: qui proprio non si parla neppure di HIV in maniera così generica: se i giovani gay almeno sono edotti sulla possibilità della profilassi farmacologica, i servizi di dating della comunità sono pieni di persone “in PrEP”, che sono molto più credibilmente state contagiate anni fa e sono più realisticamente in terapia efficace, quindi senza virus rilevabile e non contagiosi (undetectable=untrasmittable) , potendo quindi tornare ad avere una vita sessuale senza patemi per sé e per gli altri, ma tutto nel silenzio e nell’ipocrisia.
Se i trend epidemiologici continueranno così, nel giro di venti o trent’anni l’HIV sarà sparito dai monitor dei sistemi sanitari, ma resterà per sempre un qualcosa di non detto, e di cui non parlare in società.