Questo post nasce per LinkedIn, ma non è su LinkedIn, bensì su una sorta di conveniente amnesia selettiva, simile a quella degli alpini che ricordano con gioia i tempi della leva obbligatoria…

Ho già scritto che vivo con fastidio i contenuti non professionali su LinkedIn, anche per questo ho resistito più volte al commentare i post che girano (su LinkedIn e pure qui) usando il successo di celebri pop star degli anni ’80 per narrare di una “epoca d’oro della tolleranza”. Però, credo sia il caso di fare chiarezza.

Innanzitutto, sui contenuti.
È facile essere “tolleranti” con qualcuno il cui lavoro è farci divertire, che per definizione non appartiene al gruppo delle “persone normali” perché è un artista e vive sopra le righe sempre e comunque a prescindere dal proprio orientamento sessuale.
Ma, tolto Boy George, quanti sono stati i vostri vicini di casa che hanno avuto il coraggio di dichiararsi omosessuali e vivere liberamente la propria vita negli anni 80?
Si suonavano i dischi di Mercury, Boy George e degli altri, ma non c’era alcuno spazio per le loro vite, per non turbare il pubblico e gli sponsor e, per un Boy George con poco spazio per i fraintendimenti (vi ricordo che il nostro Renato Zero continua a dichiararsi etero), c’erano altri che “ben consigliati”, aspettavano la fine del successo planetario per fare coming out (eg. i Pet Shop Boys).
Se poi pensiamo alla “cultura” di questo Paese, in TV passavano i b-movie all’italiana carichi di sessismo e volgarità, le edicole erano piene di roba ributtante, per parlare di una minoranza e di diritti civili bisognava aspettare il buon cuore di Maurizio Costanzo sempre e comunque dopo le 23.
La realtà è che questo passato da Mulino Bianco turbato dalle pretese di una minoranza invadente esiste solo nella fantasia di chi vuole negare ancora ancora oggi agli omosessuali lo stesso diritto a vivere pubblicamente la propria vita che hanno sempre avuto gli eterosessuali, punto.

Poi, c’è un profilo di metodo, se possibile ancora peggiore.
Ritengo incredibile trovare questo tipo di contenuti su un social che dovrebbe ospitare persone che hanno responsabilità in organizzazioni, imprenditori o liberi professionisti il cui obiettivo dovrebbe anche essere creare un luogo di lavoro nel quale le persone si sentono apprezzate, rispettate e motivate a dare il meglio di sé non per i quattro soldi degli stipendi dei CCNL ma perché orgogliose di essere parte di un team.

Da un punto di vista professionale, trovo spaventoso vedere che c’è chi non teme di pubblicare simili fesserie, e di dire ai propri collaboratori, colleghi, clienti e fornitori «sono uno che non considera, per crudeltà o superficialità, l’aspirazione del prossimo a costruire la propria vita seguendo la propria natura, le proprie convinzioni, le proprie inclinazioni». Questo è sgradevole, ma il non detto è addirittura peggio: «sono uno che ti renderà il lavoro un’incombenza sgradevole non appena oserai scostarti dal mio punto di vista su qualunque cosa».
Chi pubblica certe cose si definisce come collega o responsabile o datore di lavoro inaffidabile, perché superficiale o malvagio: fa male alla comunità e fa male a se stesso, praticamente la terza legge di Carlo Cipolla.