Una bella domanda: ma le campagne sociali fondate sulla paura funzionano davvero? La mia risposta è no, queste campagne non hanno reale efficacia: creano un grande spavento mentre le guardi, ma non cambiano davvero i comportamenti, almeno non a livello di popolazione.
Per fare un esempio, ricordo quello delle campagne degli anni ’80 e ’90 del secolo scorso per la prevenzione dell’HIV; tutti quanti ci ricordiamo l’alone viola e, sì, ricordiamo il messaggio che queste campagne veicolavano, cioè che l’HIV può essere trasmesso da chiunque e a chiunque, eppure… eppure i tassi di trasmissione dell’HIV sono rimasti costanti negli anni, a testimonianza del fatto che non è cambiato il costume, che oggi come prima dell’arrivo di questa pandemia si continua a fare molto sesso senza profilattici (siamo tra adulti, si possono dire queste cose, vero?). Con grande disdetta del “signor Durex” e dei suoi concorrenti, la riduzione delle nuove infezioni di questi ultimi anni non è legata a un cambio nei comportamenti ma alla decisione di mettere le persone in terapia antiretrovirale il giorno stesso della diagnosi e alla diffusione della profilassi farmacologica pre-esposizione.
Perché le persone vedono le campagne, si spaventano, ma non cambiano il modo di vivere? Perché è vero che siamo programmati per avere paura (driver di marketing fondamentale), ma anche per attivare dei comportamenti evitanti della paura. Le scatole di sigarette pubblicano immagini al limite della pornografia del dolore, eppure il consumo di sigarette non diminuisce.
Cito spesso Natan Sharansky che, nel suo “The Case for Democracy”, usa un’immagine che mi ha colpito molto: spiega che nessun soldato, per quanto giovane e forte, può tenere un fucile in mano infinitamente; prima o poi si stanca e il fucile gli cade dalle braccia. Ecco, questo è il limite delle campagne fondate sul terrore: prima o poi l’opinione pubblica si stanca e automaticamente gli occhi, le orecchie, la coscienza, saltano il messaggio che vorrebbe spaventarli e imparano a ignorarlo.
La comunicazione sociale fondata sullo spavento è di impatto, commuove immediatamente e gratifica nella prima fase sia chi la promuove (che si sente un campione della responsabilità sociale) sia chi la guarda, perché nei primi momenti prova sincera empatia per le vittime rappresentate nel messaggio; ma, tolti i primi momenti, la nostra mente interviene a proteggerci da questi fiumi di dolore e commozione che cattivi comunicatori ci riversano addosso tutti i giorni.
Tutti quanti abbiamo già abbastanza problemi e dolori nella nostra quotidianità senza che i professionisti della comunicazione ne aggiungano altri. Forse converrebbe che tutti quanti noi nel “mondo della comunicazione” imparassimo che anche noi dobbiamo “vendere il buco nel muro e non semplici trapani”; fuor di metafora: forse, un po’ più di comunicazione positiva non guasterebbe.